ALFREDO[1]In realtà sarebbe più corretto dire io e il “nostro Maestro” perché Cesare Barioli è stato Maestro di Judo di molti judoka, ma il rapporto con il proprio Maestro è qualcosa di personale e per questo preferisco dire “mio”.

Era il novembre 1964 quando mi infilai per la prima volta in una palestra di Judo. Una tipica giornata milanese di una volta, nebbiosa e piovigginosa. Di una volta perché a Milano quelle giornate non si vedono quasi più. Era la palestra della Camera del lavoro, situata in uno scantinato molto grande dove convivevano lottatori, pugili, pesisti e judoka.

La scelsi perché delle tre o forse quattro che trovai a Milano era la più economica: all’incirca 1500 lire al mese e più forse 1000 lire per il judogi. Com’era lo spogliatoio e il “sano” odore di sudore di quella Palestra non ve lo sto a raccontare, non mi credereste! Comunque quel lunedì di novembre alle 19,30 salii per la prima volta su un tatami, o meglio un telo di plastica tenuto tramite degli elastici ai bordi di un telaio di contenimento in legno appoggiato a della segatura.

Il Maestro che insegnava era Giancarlo Galli e tuttora insegna a Milano, ma la prima tecnica di Judo, Hon kesa gatame, mi venne spiegata da Ottavio Beretta, allora cintura marrone e ora un alto grado della UISP. Le tecniche a terra mi riuscivano bene ma in piedi non ci capivo molto, e comunque quando arrivava il momento del randori ci capivo ancora meno. L’unico che riusciva a farmi vedere in pratica qualche tecnica era Oscar Reggiani, allora cintura verde, che dall’alto dei suoi 100 kg abbondanti dominava la lezione.

Devo dire che non ero molto entusiasta di tutto l’insieme. Rapidamente arrivò dicembre e le feste natalizie, poi ai primi di Gennaio nacque mio fratello Giorgio e nel trambusto familiare finii per tornare in palestra a Marzo del 1965. Quando arrivai in Palestra – non molto motivato probabilmente per via della lunga assenza devo dire – trovai altri judoka sul tatami.

Oltre al Maestro Galli c’era un’altra cintura nera più o meno della mia corporatura e sicuramente con qualche muscolo in più che mi dava l’idea di saperci fare. Ricordo che spiegò Ko uchi gari e Hane goshi in modo chiaro e semplice: mi sembrava di avere capito bene entrambe le tecniche, ero contento.

Il bello arrivò quando iniziò il randori: la nuova cintura nera prese Oscar e cominciò a proiettarlo in tutte le direzioni. Prima con De ashi barai – che a me sembrava una tecnica impossibile – fece volare Oscar come una piuma, poi partì con Hane goshi, e mi ricordo che, quando Oscar cadde sulla segatura, fece un botto tale che si girarono tutti.

Fui folgorato judoisticamente da quelle tecniche e dall’eleganza con cui venivano eseguite. Pensai: “Ecco cos’è il Judo!” Non persi una lezione, anche perché quella cintura nera si era spostata lì per insegnare temporaneamente in attesa di trovare una Palestra sua.

Luglio arrivò in un baleno e iniziarono le vacanze; quando tornai a settembre la cintura nera aveva trovato un’altra sistemazione non molto distante da dove eravamo e così ci spostammo tutti là, in un cortile di via Mascagni dentro a un locale adiacente a una storica palestra di box milanese di nome “Palestra Doria”, la nostra si chiamava Spartacus. Non restammo molto, ma nel frattempo ero riuscito a fare progressi sia nelle tecniche in piedi sia in quelle a terra.

La cintura nera prese anche un nome dopo quei mesi durante i quali neanche ci avevo parlato: Cesare Barioli. L’ho sempre chiamato Cesare e mai Maestro, anche se l’ho sempre ritenuto tale fino all’ultimo respiro della sua vita. Aveva l’abitudine di raccontarci sempre qualche cosa alla fine della lezione, per due motivi diceva: anzitutto per raccontarci cos’era il Judo, poi per farci allenare le ginocchia mentre rimanevamo in seiza ad ascoltarlo.

I mesi scorrevano veloci e ci allenavamo anche la domenica mattina ma un giorno, nella primavera inoltrata del 1966, Cesare ci annunciò di avere trovato il suo Dojo, “Con acqua calda per le docce finalmente” aggiunse scherzando. Già, il suo Dojo, il Bu-Sen, acromio di “Budo Senmon gakko”, scuola superiore delle Arti Marziali giapponesi appartenente al Butokukai, un’istituzione creata per volontà dell’imperatore del Giappone allo scopo di preservare lo spirito originale del Budo.

Era un vecchio teatro della Società Mutua Filocantanti in via Arese 7, con un grande salone senza colonne e spogliatoi umani con tanto di servizi e acqua calda per le docce. In fondo al salone c’era il palco che Cesare chiuse creando un séparé, non era molto grande ma sufficiente per organizzare altre attività. Su quel palco, infatti, insegnarono e si formarono ottimi karateka e Maestri di Kung-fu. C’era inoltre una bella galleria all’interno della sala da dove era possibile assistere alle lezioni senza disturbare.

Ricordo mio Padre che nei primi anni non perdeva una lezione ma stanco per la giornata lavorativa spesso si appisolava sulla balaustra della galleria e si svegliava solo quando sentiva dire “randori!”. Passammo l’estate a mettere a posto il locale: disponemmo il tatami sopra un tavolato in legno per rendere piacevole la caduta, imbiancammo, recuperammo panche e appendiabiti e una scrivania per la segreteria: insomma, tutto il necessario per far funzionare il nuovo Dojo.

Da fine agosto cominciammo ad allenarci tutti giorni, sabato e domenica comprese, anzi la domenica due volte: la mattina aperta a tutti e il pomeriggio solo per 5 o 6 folli – compreso il sottoscritto – che facevano due ore solo di Ne waza. Domenica sera pizza o cinema tutti insieme. Verso ottobre arrivò la prima gara: per quell’occasione Cesare mi disse di mettere la cintura arancione perché tenere la bianca non era corretto verso gli avversari del torneo.

Non vi racconto delle gare ma vi racconto che, ogni lunedì sera successivo a una gara, dopo il saluto a fine allenamento c’erano ramanzine per tutti: anche se avevamo vinto non avevamo mai dato il massimo di noi stessi. Nella migliore delle ipotesi non ci diceva nulla, e per noi era il massimo della soddisfazione.

Cesare faceva ancora le gare e un giorno mi chiese se volevo andare a Roma con lui per assistere a un campionato nazionale delle cinture nere. Partimmo a mezzanotte del sabato da Milano con la sua Fiat Cinquecento e arrivammo alle sette del mattino della domenica, giusto in tempo per le operazioni di peso.

Fece sei incontri e li vinse tutti per ippon aggiudicandosi il titolo della categoria. Ricordo che fuori dal Palazzetto dell’EUR mangiammo un panino e poi tornammo subito a casa, anche perché non avevamo né soldi né tempo per stare in giro.

Lui non mi parlò della gara ma io vidi sei ippon, tutti con tecniche diverse. Da allora lo seguii dappertutto: gare, stage, lezioni in palestre di tutta Italia. Imparai a cadere bene e divenni il suo uke preferito: diceva sempre che se non sei un buon uke farai fatica a diventare un buon tecnico e a comprendere le tecniche di Judo.

Devo dire che tutti noi eravamo diventati degli ottimi uke. Passai al grado di cintura nera dopo un anno e mezzo circa da quando incontrai Cesare e nel 1968 ero già quarto dan. Ricordo che in quegli anni si poteva passare di grado fino al quarto dan gareggiando nei campionati italiani: bastava vincerli e si passava anche di due dan in un anno. Non ricordo la data, ma in quel periodo andammo a Roma per il suo esame di quarto dan, che prevedeva anche l’esecuzione di Nage no kata, Katame no kata e Kime no kata.

Il Nage no kata era mal conosciuto e poco praticato per mancanza di buoni uke, il Katame e il Kime erano due sconosciuti. Cesare passò l’esame con il massimo del punteggio, anche perché in Federazione nessuno poteva valutarlo o si sentiva abbastanza sicuro da discutere con lui di Judo. Io invece mi sciroppai circa 25 Nage no kata da uke per aiutare tutti quelli che improvvisamente sostenevano di non avere un uke o che questo si era fatto male. Arrivò la nazionale con il primo campionato d’Europa Juniores a Londra o a Lisbona, non ricordo, e poi altre gare internazionali e, infine, Nicola Tempesta, che divenne allenatore della nazionale.

Per Cesare, Nicola era la tecnica di Judo fatta uomo, anche se penso non glielo avesse mai detto, si divertiva quando aveva l’occasione di raccontarmi delle sue gesta in gara, delle sue battaglie con Anton Geesink e, soprattutto, della sua fantasia judoistica. Mi raccontava che per lui vincere ai campionati italiani era una passeggiata: aspettava di essere chiamato sul tatami con la sigaretta in bocca e, quando arrivava il suo turno, passava la sigaretta alla moglie che lo affiancava con la figlia in braccio e le diceva in dialetto napoletano: “Elvira, tieni un’attimo la sigaretta per favore, arrivo!”

Cesare era affascinato dal suo spirito agonistico, e anch’io lo divenni col tempo avendolo come Maestro in nazionale. Poi la favola finì, o meglio a partire dall’estate del 1972 cambiò il suo racconto. Ci fu la rottura con il mondo federale e Cesare venne rimosso dal suo incarico di insegnante all’Accademia a Roma. Non racconto la motivazione perché tanto non mi credereste: tutto ricominciò da capo con altri obiettivi.

Lentamente l’insegnamento di Cesare si spostò dall’eccellenza tecnica finalizzata al risultato agonistico all’eccellenza didattica finalizzata all’educazione. Io feci fatica e ci misi un po’ di tempo a metabolizzare questo cambiamento.
Girai l’Europa con mio fratello in cerca di gare e tornei cui partecipare, cercando sempre di arrivare prima che i nostri dirigenti federali telefonassero alle federazioni competenti per proibire la nostra partecipazione.

Mi ricordo che una volta arrivammo a Varsavia per un torneo internazionale e ci iscrivemmo svolgendo le regolari operazioni di peso. Dopo però ci dissero che erano molto dispiaciuti ma la federazione italiana aveva appena telefonato e proibito la nostra partecipazione.

Ma questo non c’entra con il mio Maestro. Cesare era sempre in cerca di discipline diverse che servissero a migliorare la sua comprensione del Judo allo scopo di trasmetterle poi a noi.

Questa sua ricerca mi portò a conoscere e praticare negli anni del Bu-sen l’Aikido con il Maestro Kawamukai, primo giapponese a Milano insegnate di quella disciplina, il Kendo e lo Iaido con il Maestro Toyofuku, il Chi kung con Maestri cinesi che si fermavano al Bu sen per brevi periodi, il Tai chi chuan con il Maestro Chang Tsu Yao, lo Zen con il Maestro Deshimaru Taisen, il Kriya Yoga di Paramansa Yogananda , Dyanetics e qualche altra disciplina ancora che in seguito ho abbandonato.


Viveva tutto ciò tanto intensamente e con una tale passione che spesso alcuni di noi avevano una specie di ribellione interiore verso la nuova disciplina di turno perché credevano, erroneamente, che a causa sua Cesare si stesse allontanando dal Judo. Ogni volta Cesare prendeva da quella disciplina quello che gli serviva e poi ricominciava la ricerca, lasciando lì il sottoscritto ad imparare.

Cominciò con il Kriya yoga e poi passò alle Discipline giapponesi, al Soto Zen, a Discipline cinesi come il il Pi kwan shu poi il Tai Chi e altre occidentali come Dynetics. Fu proprio attraverso il contatto con Dyanetics che conobbi un americano, Ron Lowing, dirigente di Scientology e insegnante di Pi kwan shu, disciplina che pratico ancora.
Dopo un paio di anni Cesare chiuse la sezione agonistica del Bu-sen e si dedicò alla realizzazione di quello che aveva maturato in quegli anni: il Judo educazione.

Io “uccisi” il mio Maestro un paio di anni dopo, credo fosse il Gennaio del 1976, quando sentii che era ora di tagliare il cordone ombelicale che mi legava a lui e di continuare a percorrere la sua stessa strada per conto mio.
Questa separazione, di cui Cesare ci parlava spesso, è un concetto orientale che spiega come debba avvenire un taglio netto fra Maestro e allievo – nel momento giusto, senza traumi psicologici – : si tratta però della fine del rapporto di dipendenza che lega i due e non di una separazione ideologica.

Tutto il nostro gruppo aveva una forma di dipendenza con Cesare, ma ciascuna era diversa. Con il mio Maestro ho vissuto un’avventura straordinaria che ancora sto continuando a vivere. Come allievo ho condiviso con lui tante emozioni, legate a intensi momenti di felicità, rabbia, delusione, fatica, e tanto Judo.
Da quando mi prese per mano per accompagnarmi in questa avventura che sto ancora vivendo a quando lo presi per mano io per accompagnarlo alla fine del suo ultimo respiro e all’inizio della sua (forse) ultima ricerca.

Alfredo Vismara
Hanshi Dai Nippon Butokukai

bottone blu didattica