In realtà sarebbe più corretto dire io e il “nostro Maestro” perché Cesare Barioli è stato Maestro di Judo di molti judoka, ma il rapporto con il proprio Maestro è qualcosa di personale e per questo preferisco dire “mio”.
Era il novembre 1964 quando mi infilai per la prima volta in una palestra di Judo. Una tipica giornata milanese di una volta, nebbiosa e piovigginosa. Di una volta perché a Milano quelle giornate non si vedono quasi più. Era la palestra della Camera del lavoro, situata in uno scantinato molto grande dove convivevano lottatori, pugili, pesisti e judoka.
La scelsi perché delle tre o forse quattro che trovai a Milano era la più economica: all’incirca 1500 lire al mese e più forse 1000 lire per il judogi. Com’era lo spogliatoio e il “sano” odore di sudore di quella Palestra non ve lo sto a raccontare, non mi credereste! Comunque quel lunedì di novembre alle 19,30 salii per la prima volta su un tatami, o meglio un telo di plastica tenuto tramite degli elastici ai bordi di un telaio di contenimento in legno appoggiato a della segatura.
Il Maestro che insegnava era Giancarlo Galli e tuttora insegna a Milano, ma la prima tecnica di Judo, Hon kesa gatame, mi venne spiegata da Ottavio Beretta, allora cintura marrone e ora un alto grado della UISP. Le tecniche a terra mi riuscivano bene ma in piedi non ci capivo molto, e comunque quando arrivava il momento del randori ci capivo ancora meno. L’unico che riusciva a farmi vedere in pratica qualche tecnica era Oscar Reggiani, allora cintura verde, che dall’alto dei suoi 100 kg abbondanti dominava la lezione.
Devo dire che non ero molto entusiasta di tutto l’insieme. Rapidamente arrivò dicembre e le feste natalizie, poi ai primi di Gennaio nacque mio fratello Giorgio e nel trambusto familiare finii per tornare in palestra a Marzo del 1965. Quando arrivai in Palestra – non molto motivato probabilmente per via della lunga assenza devo dire – trovai altri judoka sul tatami.
Oltre al Maestro Galli c’era un’altra cintura nera più o meno della mia corporatura e sicuramente con qualche muscolo in più che mi dava l’idea di saperci fare. Ricordo che spiegò Ko uchi gari e Hane goshi in modo chiaro e semplice: mi sembrava di avere capito bene entrambe le tecniche, ero contento.
Il bello arrivò quando iniziò il randori: la nuova cintura nera prese Oscar e cominciò a proiettarlo in tutte le direzioni. Prima con De ashi barai – che a me sembrava una tecnica impossibile – fece volare Oscar come una piuma, poi partì con Hane goshi, e mi ricordo che, quando Oscar cadde sulla segatura, fece un botto tale che si girarono tutti.
Fui folgorato judoisticamente da quelle tecniche e dall’eleganza con cui venivano eseguite. Pensai: “Ecco cos’è il Judo!” Non persi una lezione, anche perché quella cintura nera si era spostata lì per insegnare temporaneamente in attesa di trovare una Palestra sua.
Luglio arrivò in un baleno e iniziarono le vacanze; quando tornai a settembre la cintura nera aveva trovato un’altra sistemazione non molto distante da dove eravamo e così ci spostammo tutti là, in un cortile di via Mascagni dentro a un locale adiacente a una storica palestra di box milanese di nome “Palestra Doria”, la nostra si chiamava Spartacus. Non restammo molto, ma nel frattempo ero riuscito a fare progressi sia nelle tecniche in piedi sia in quelle a terra.
La cintura nera prese anche un nome dopo quei mesi durante i quali neanche ci avevo parlato: Cesare Barioli. L’ho sempre chiamato Cesare e mai Maestro, anche se l’ho sempre ritenuto tale fino all’ultimo respiro della sua vita. Aveva l’abitudine di raccontarci sempre qualche cosa alla fine della lezione, per due motivi diceva: anzitutto per raccontarci cos’era il Judo, poi per farci allenare le ginocchia mentre rimanevamo in seiza ad ascoltarlo.
I mesi scorrevano veloci e ci allenavamo anche la domenica mattina ma un giorno, nella primavera inoltrata del 1966, Cesare ci annunciò di avere trovato il suo Dojo, “Con acqua calda per le docce finalmente” aggiunse scherzando. Già, il suo Dojo, il Bu-Sen, acromio di “Budo Senmon gakko”, scuola superiore delle Arti Marziali giapponesi appartenente al Butokukai, un’istituzione creata per volontà dell’imperatore del Giappone allo scopo di preservare lo spirito originale del Budo.
Era un vecchio teatro della Società Mutua Filocantanti in via Arese 7, con un grande salone senza colonne e spogliatoi umani con tanto di servizi e acqua calda per le docce. In fondo al salone c’era il palco che Cesare chiuse creando un séparé, non era molto grande ma sufficiente per organizzare altre attività. Su quel palco, infatti, insegnarono e si formarono ottimi karateka e Maestri di Kung-fu. C’era inoltre una bella galleria all’interno della sala da dove era possibile assistere alle lezioni senza disturbare.
Ricordo mio Padre che nei primi anni non perdeva una lezione ma stanco per la giornata lavorativa spesso si appisolava sulla balaustra della galleria e si svegliava solo quando sentiva dire “randori!”. Passammo l’estate a mettere a posto il locale: disponemmo il tatami sopra un tavolato in legno per rendere piacevole la caduta, imbiancammo, recuperammo panche e appendiabiti e una scrivania per la segreteria: insomma, tutto il necessario per far funzionare il nuovo Dojo.
Da fine agosto cominciammo ad allenarci tutti giorni, sabato e domenica comprese, anzi la domenica due volte: la mattina aperta a tutti e il pomeriggio solo per 5 o 6 folli – compreso il sottoscritto – che facevano due ore solo di Ne waza. Domenica sera pizza o cinema tutti insieme. Verso ottobre arrivò la prima gara: per quell’occasione Cesare mi disse di mettere la cintura arancione perché tenere la bianca non era corretto verso gli avversari del torneo.
Non vi racconto delle gare ma vi racconto che, ogni lunedì sera successivo a una gara, dopo il saluto a fine allenamento c’erano ramanzine per tutti: anche se avevamo vinto non avevamo mai dato il massimo di noi stessi. Nella migliore delle ipotesi non ci diceva nulla, e per noi era il massimo della soddisfazione.
Cesare faceva ancora le gare e un giorno mi chiese se volevo andare a Roma con lui per assistere a un campionato nazionale delle cinture nere. Partimmo a mezzanotte del sabato da Milano con la sua Fiat Cinquecento e arrivammo alle sette del mattino della domenica, giusto in tempo per le operazioni di peso.
Fece sei incontri e li vinse tutti per ippon aggiudicandosi il titolo della categoria. Ricordo che fuori dal Palazzetto dell’EUR mangiammo un panino e poi tornammo subito a casa, anche perché non avevamo né soldi né tempo per stare in giro.
Lui non mi parlò della gara ma io vidi sei ippon, tutti con tecniche diverse. Da allora lo seguii dappertutto: gare, stage, lezioni in palestre di tutta Italia. Imparai a cadere bene e divenni il suo uke preferito: diceva sempre che se non sei un buon uke farai fatica a diventare un buon tecnico e a comprendere le tecniche di Judo.
Devo dire che tutti noi eravamo diventati degli ottimi uke. Passai al grado di cintura nera dopo un anno e mezzo circa da quando incontrai Cesare e nel 1968 ero già quarto dan. Ricordo che in quegli anni si poteva passare di grado fino al quarto dan gareggiando nei campionati italiani: bastava vincerli e si passava anche di due dan in un anno. Non ricordo la data, ma in quel periodo andammo a Roma per il suo esame di quarto dan, che prevedeva anche l’esecuzione di Nage no kata, Katame no kata e Kime no kata.
Il Nage no kata era mal conosciuto e poco praticato per mancanza di buoni uke, il Katame e il Kime erano due sconosciuti. Cesare passò l’esame con il massimo del punteggio, anche perché in Federazione nessuno poteva valutarlo o si sentiva abbastanza sicuro da discutere con lui di Judo. Io invece mi sciroppai circa 25 Nage no kata da uke per aiutare tutti quelli che improvvisamente sostenevano di non avere un uke o che questo si era fatto male. Arrivò la nazionale con il primo campionato d’Europa Juniores a Londra o a Lisbona, non ricordo, e poi altre gare internazionali e, infine, Nicola Tempesta, che divenne allenatore della nazionale.
Per Cesare, Nicola era la tecnica di Judo fatta uomo, anche se penso non glielo avesse mai detto, si divertiva quando aveva l’occasione di raccontarmi delle sue gesta in gara, delle sue battaglie con Anton Geesink e, soprattutto, della sua fantasia judoistica. Mi raccontava che per lui vincere ai campionati italiani era una passeggiata: aspettava di essere chiamato sul tatami con la sigaretta in bocca e, quando arrivava il suo turno, passava la sigaretta alla moglie che lo affiancava con la figlia in braccio e le diceva in dialetto napoletano: “Elvira, tieni un’attimo la sigaretta per favore, arrivo!”
Cesare era affascinato dal suo spirito agonistico, e anch’io lo divenni col tempo avendolo come Maestro in nazionale. Poi la favola finì, o meglio a partire dall’estate del 1972 cambiò il suo racconto. Ci fu la rottura con il mondo federale e Cesare venne rimosso dal suo incarico di insegnante all’Accademia a Roma. Non racconto la motivazione perché tanto non mi credereste: tutto ricominciò da capo con altri obiettivi.
Lentamente l’insegnamento di Cesare si spostò dall’eccellenza tecnica finalizzata al risultato agonistico all’eccellenza didattica finalizzata all’educazione. Io feci fatica e ci misi un po’ di tempo a metabolizzare questo cambiamento.
Girai l’Europa con mio fratello in cerca di gare e tornei cui partecipare, cercando sempre di arrivare prima che i nostri dirigenti federali telefonassero alle federazioni competenti per proibire la nostra partecipazione.
Mi ricordo che una volta arrivammo a Varsavia per un torneo internazionale e ci iscrivemmo svolgendo le regolari operazioni di peso. Dopo però ci dissero che erano molto dispiaciuti ma la federazione italiana aveva appena telefonato e proibito la nostra partecipazione.
Ma questo non c’entra con il mio Maestro. Cesare era sempre in cerca di discipline diverse che servissero a migliorare la sua comprensione del Judo allo scopo di trasmetterle poi a noi.
Questa sua ricerca mi portò a conoscere e praticare negli anni del Bu-sen l’Aikido con il Maestro Kawamukai, primo giapponese a Milano insegnate di quella disciplina, il Kendo e lo Iaido con il Maestro Toyofuku, il Chi kung con Maestri cinesi che si fermavano al Bu sen per brevi periodi, il Tai chi chuan con il Maestro Chang Tsu Yao, lo Zen con il Maestro Deshimaru Taisen, il Kriya Yoga di Paramansa Yogananda , Dyanetics e qualche altra disciplina ancora che in seguito ho abbandonato.
Viveva tutto ciò tanto intensamente e con una tale passione che spesso alcuni di noi avevano una specie di ribellione interiore verso la nuova disciplina di turno perché credevano, erroneamente, che a causa sua Cesare si stesse allontanando dal Judo. Ogni volta Cesare prendeva da quella disciplina quello che gli serviva e poi ricominciava la ricerca, lasciando lì il sottoscritto ad imparare.
Cominciò con il Kriya yoga e poi passò alle Discipline giapponesi, al Soto Zen, a Discipline cinesi come il il Pi kwan shu poi il Tai Chi e altre occidentali come Dynetics. Fu proprio attraverso il contatto con Dyanetics che conobbi un americano, Ron Lowing, dirigente di Scientology e insegnante di Pi kwan shu, disciplina che pratico ancora.
Dopo un paio di anni Cesare chiuse la sezione agonistica del Bu-sen e si dedicò alla realizzazione di quello che aveva maturato in quegli anni: il Judo educazione.
Io “uccisi” il mio Maestro un paio di anni dopo, credo fosse il Gennaio del 1976, quando sentii che era ora di tagliare il cordone ombelicale che mi legava a lui e di continuare a percorrere la sua stessa strada per conto mio.
Questa separazione, di cui Cesare ci parlava spesso, è un concetto orientale che spiega come debba avvenire un taglio netto fra Maestro e allievo – nel momento giusto, senza traumi psicologici – : si tratta però della fine del rapporto di dipendenza che lega i due e non di una separazione ideologica.
Tutto il nostro gruppo aveva una forma di dipendenza con Cesare, ma ciascuna era diversa. Con il mio Maestro ho vissuto un’avventura straordinaria che ancora sto continuando a vivere. Come allievo ho condiviso con lui tante emozioni, legate a intensi momenti di felicità, rabbia, delusione, fatica, e tanto Judo.
Da quando mi prese per mano per accompagnarmi in questa avventura che sto ancora vivendo a quando lo presi per mano io per accompagnarlo alla fine del suo ultimo respiro e all’inizio della sua (forse) ultima ricerca.
Alfredo Vismara
Hanshi Dai Nippon Butokukai
Ad Alfredo,
grazie per avermi riportato, ma mai dimenticati, agli anni del Bu-Sen e a Cesare Barioli.
Entrai in quella palestra nel 1973 e come tutti i giovanissimi di quegli anni credevo che imparando un’arte marziale, sarei diventato invincibile.
Non ci volle molto a farmi cambiare idea e capire che il Judo non era solo uno sport, ma una filosofia di vita. Penso che Cesare abbia insegnato a tutti noi il rispetto, la forza di volontà e la continua ricerca di trovare il nostro equilibrio interiore.
E’ stato un onore frequentare quella palestra dove si respirava “pane e Judo”, avere la possibilità di apprendere da insegnanti come te e tuo fratello Beppe E sopratutto per gli insegnamenti di vita di Cesare Barioli, che ho cercato di applicare ed a insegnare ai miei figli che hanno entrambi cercato la loro “VIA” nella pratica Marziale.
Sono eternamente grato al Bu-Sen per avermi fatto capire chi ero.
Un Abbraccio.
Sono straordinariamente affascinato dal tuo racconto e sono gratificato per avere conosciuto una persona come te, ricco di esperienze sportive e umane. La tua storia è forse unica nel suo genere. Non posso che ringraziarti per gli insegnamenti che mi hai trasmesso nelle ,purtroppo ,rare occasioni in cui ho potuto studiare qualcosa con te. Ancora grazie
Caro il mio grande ALFREDO,NON DICO IL MIO GRANDE MAESTRO ,dico il mio grande amico,perche’MAESTRO E’TROPPO POCO,ho letto la storia del tuo inizio JUDO,E li’alla camera del lavoro ci siamo conosciuti,e dove mi descrivi,mi hai fatto venire in mente,veramente tanti bellissimi ricordi,che potrei fare un diario,anche perche’eravamo due sbarbatelli,sebbene io abbia due anni in piu’.Il ricordo di CESARE BARIOLI indimenticabile!!!e’sempre presente,il ricordo delle varie palestre e’sempre presente,chiamiamole palestre?quella della camera del lavoro,tatami4x4con colonna centrale,poco imbottita,per cui dovevi stare molto attento a fare qualche tecnica,dove immancabilmente ci si andava a sbattere,poi in via MASCAGNI,la SPARTACUS,CON GALLI,
FANTASTICO JUDOCA,docce con acqua gelida,e l’entrata in palestra,con bastoni e sassi al buio,perche’all’improvviso accendavamo le luci,e sorpresa era la caccia ai topi,iquali ci rosicchiavano la materassina,comunque siano state il JUDO era piu’ forte ed eravamo gasati.da li ci siamo divisi perche’io ho frequentato molte scuole per parrucchiere,,il mio lavoro,,mentre tu hai continuato con il JUDO,la tua ragione di vita.
Nel frattempo ho sempre continuato,cambiando alcune palestre,dove poi sapendo che al MUSOKAN VI ERA CESARE BARIOLI,mi sono catapultato immediatamente,e posso dirti che e’stato un incontro felice il ritrovarci.Il proseguimento e’ stato il tuo arrivo al..MUSOKAN..che poi ai rilevato tu la palestra,segue la mia cintura nera,1°-2°-3°-4°-5°dan
con tutti i tuoi insegnamenti,passando inesorabilmente piu’ di trent’anni,mi spiace molto come gia’ti scrissi di non poter piu’frequentare la palestra,ma purtroppo per ragione di lavoro,orari e lontananza non e’piu’possibile.non ha importanza ti seguo sempre sul tuo sito e stampo tutto quello che scrivi,al 50%mi sembra di fare ancora JUDO,,mi tengo sempre in contatto con te’….un grosso abbraccio da OSCAR..CIAO AMICONE!!!!
Sei forte Oscar, come sempre! Ti abbraccio forte
A volte credo di non essere all’altezza della situazione, questo mi lascia un sapore amaro che faccio fatica a deglutire, ma, guarda caso quando penso alla grande fortuna che ho avuto, tutto passa e fila liscio.
Ora spiego la mia grande “fortuna”; nel lontano 1970 un amico mi invitò a vedere la disciplina che lui praticava, sono andato con lui al BU-SEN di Milano, sono salito in galleria e ho assistito alla lezione del mio amico, la cosa non mi entusiasmò più di tanto, ma tornai a vedere l’allora “lotta giapponese” e invece di scendere subito restai a guardare mentre il mio amico faceva la doccia. Vidi salire sul tatami molti giovani tra cui, i fratelli Vismara
che facevano qualcosa di diverso da quallo che avevo visto prima; era il settore agonistico.
Avevo 25 anni tardi per cominciare, ma fui affascinato e mi iscrissi al Bu-Sen.
Conobbi molti ragazzi che aiutavano i “nuovi” e la cosa mi rese ancora più convinto a continuare. Il Maestro, Cesare Barioli, nella sua severità dava tutto per aiutarti a crescere, passai poi, per un certo periodo, all’agonistica ma con poche possibilità, troppo tardi per fare gare e poi ero già padre di famiglia, ma comunque facevo Judo tutti i giorni. Conobbi i “mostri sacri” del Judo di allora tra cui il mio secondo Maestro, anzi, colui che mi ha guidato fino adesso e che ancora chiedo lumi per la mia crescita.
Grazie M° Barioli e GRAZIE infinite al M° Alfredo Vismara.
Giacinto Pesce
Alfredo ho letto con molto piacere il tuo scritto e in alcuni momenti, il ricordo di Cesare, mi porta a commozione. Sono entrato per la prima volta al BU-SEN nel 1972 quando per lavoro fui trasferito a Milano e le sensazioni che provai sono le stesse che tu hai egregiamente riportato, vedere e lavorare con CESARE sul tatami era un immenso piacere perché riusciva a fare entrare in Judo dentro di te come mai nessuno aveva fatto. Sono 56 anni che sono sul Tatami ma le sensazioni che Cesare e Tu riuscite a trasmettere sono tangibili e indimenticabili e se io riesco a trasmettere ai miei ragazzi qualcosa è grazie al grande Maestro CESARE. Con affetto e stima Giovanni
grazie Giovanni per tutto l’amore che doni al Judo e ai tuoi allievi, ciao
… letto tutto d’un fiato…. grazie.
Caro Alfredo,
grazie, per aver reso pubblica la tua esperienza, che in parte sento anche mia, avendo trascorso gli anni dell’adolescenza judoistica al Bu-Sen.
Era l’autunno del 1973, in quel periodo facevo il diavolo a quattro con i miei affinchè mi facessero fare sport, uno qualsiasi, non mi importava granchè quale.
Il calcio come tutti i ragazzi della mia età fu la prima richiesta. Ma andava bene tutto, l’importante era fare qualcosa!
Ma tutta questa reticenza alla pratica sportiva (da parte dei miei), non derivava da concetti personali contro lo sport, tutt’altro, mio papà in Marina era stato un ottimo pugile dilettante, la ragione era un’altra e molto semplice: a causa di un fibroma nacqui con il piede sinistro costretto in una posizione anomala, ed all’età di un anno intervennero al tendine del piede per riattivare e posizionare l’arto in modo corretto.
Gesso per mesi fino a sotto il ginocchio, pipi che filtrava attraverso le pieghe dell’ingessatura ed il mio papà che una sera, non potendone più dei pianti disperati, prese un seghetto e mi tolse il gesso, mia madre ripulì, il bruciore passò e finalmente dormimmo tutti. Ma dopo qualche tempo arrivò il plantare che tutte le sere, prima di andare a dormire, dovevo indossare e di cui ho un pessimo ricordo: era molto doloroso e fastidioso ma, dicevano, necessario per la corretta postura.
La conseguenza di tutto ciò furono le scarpe ortopediche (la destra neutra) portate fino alla 5° elementare, con il divieto pressochè assoluto di praticare sport, le angherie da bambini nei confronti di un coetaneo ”diverso”, la rabbia covata ed il desiderio di dimostrare a me stesso e agli altri di essere un bambino normale.
In quel periodo spopolavano i film di Bruce Lee e le arti marziali iniziavano a fare breccia sul grande pubblico e anche noi ragazzi eravamo affascinati dai gridolini e dallo spettacolo della tecnica, seppur amplificata dalle telecamere.
Un compagno di classe che da poco si era trasferito nella zona dell’Isola (P.le Lagosta) mi parlò di una palestra con una grande galleria attraverso la quale si poteva assistere agli allenamenti dello Judo (“dello” Judo pronunciato con la i…).
Detto fatto, una domenica mattina costrinsi mio papà a portarmi ad assistere all’allenamento in quella famosa palestra il cui nome già mi affascinava: Bu-Sen – Scuola Superiore di Lotta Giapponese, così recitava la scritta sulla porta di legno a vetri smerigliati.
E così, complici i bianchini della Filocantanti e la compagnia di qualche commilitone ex Marinaio come mio papà, mentre loro discutevano delle disavventure della guerra, io assistevo affascinato all’allenamento lassù in galleria.
Finalmente, nell’ottobre di quell’anno mia madre mi accompagnò in Via Arese quasi certa di sentirsi dire le solite cose… è meglio aspettare, è troppo pericoloso…
Ci accolse lo stesso signore con i baffi che vedevo dirigere l’allenamento della domenica, aveva una strana cintura alla vita, nera ma con delle strisce rosse.
Non ricordo cosa si dissero, ero distratto da ciò che vedevo fare sulla materassina, so che ad un certo punto mi sentii apostrofare perentoriamente… giovane!! Togliti scarpe e calze e vieni verso di me!!
Un po’ in soggezione eseguii silenziosamente ed una volta arrivato al suo cospetto, passandomi la mano tra i capelli, disse a mia madre: Signora… cammina, qual è il problema?
…fu subito Judo! Avevo 12 anni: martedi e venerdi dalle 15.30 alle 16.30, 7.ooo lire al mese ed un judogi della “Viralfa” ereditato da un mio lontano cugino. Tram n. 4 che da via Paolo Sarpi, (fermata P.le Baiamonti) mi portava all’Isola.
Ma stavolta con un nuovo Maestro, più giovane, anche lui con una strana cintura alla vita: nera ma con una striscia bianca ed una rossa.
Ciao mi chiamo Alfredo e sono il vostro insegnante…
Ricordo che dopo qualche mese di pratica ci dicesti che per progredire avremmo dovuto fermarci anche all’ora dopo, con dei ragazzi coetanei ma con cinture pericolosamente scure…
Fu così che un pomeriggio, io ed alcuni compagni decidemmo per il prolungamento dell’ora.
Avevo la cintura gialla in vita.
Qualche settimana più in là, dopo aver subito in randori una serie infinita di morote-gari e okuri-ashi-barai (Gigi Petazzi) e svariati tomoe-nage (Alberto Tombolato), a fine lezione, il quadernetto delle presenze in mano, mi chiamasti dicendomi:… Danilo da quanto tempo sei cintura gialla?
La lezione successiva mi presentai con una cintura arancione fiammante!
Inutile dire che la seconda ora diventò una consuetudine e cominciammo timidamente a frequentare anche le lezioni del “maestro-con-i-baffi”, che faceva sempre cambiare le coppie…
Dopo qualche mese di “pratica tutti i giorni” (ormai i miei si erano abituati ed avevano una fiducia smisurata in Cesare), un giorno Paola mi prese da parte e mi disse… a ‘Moré! Quanto stai pagando al mese di retta?
7.000 mila lire signora, risposi timidamente… Va bene, il maestro dice che ti stai impegnando e ci stai mettendo impegno… dal prossimo mese non pagherai più nulla e potrai frequentare quando vorrai…sabato compreso.
Non voglio dirti cosa provai… anche perché quelle 7.000 lire al mese il mio papà se le sudava.
Seguirono stagioni indimenticabili di amicizia ed esperienze irripetibili, di gare, di Kan-Geiko, di stages e pizzate con compagni di viaggio che non dimenticherò mai, alcuni di loro sono diventati e sono tutt’ora famosi Judoka.
La mia attività continuò molto intensamente fino all’anno del servizio militare, dopodichè, papà nel frattempo andato in pensione, mamma da sempre casalinga, due fratelli ormai sposati, fui assorbito dal mondo del lavoro e il mio judo subì le prime interruzioni.
Sono fiero di essere cresciuto al Bu-sen e di avere avuto due Maestri d’eccezione, ho ripreso da poco ad indossare il judogi, ma la tecnica e l’esperienza acquisita, come un tatuaggio sulla pelle, non ti abbandonano mai e sono grato a quegli anni ed a quei sabati passati ad imparare le cadute.
E quel… “fila uno, via!!!”… fila due, via!!! Scanditi al ritmo di bacchette di legno, rimangono per sempre nel mio cuore.
Per molti anni sono stato lontano dal Bu-Sen e da Cesare, salvo riavvicinarmi gli ultimi periodi quando la malattia inesorabilmente avanzava. Quello che leggerai di seguito è un personalissimo ricordo di Cesare scaturito durante uno dei nostri ultimi colloqui.
Un abbraccio forte dal tuo vecchio allievo Danilo Moretto
…il Bruce Lee di Viserbella!
I shin Den Shin
(da cuore a cuore)
il vecchio leone mi parla
lo ascolto con deferenza
mentre guardo i suoi occhi
velati
scrutare il mio sguardo
distolgo la mente
e in un lampo
echi di combattimenti
nel dojo tornato gremito
e madido di sudore
rivedo in un attimo
il tuo movimento elegante,
impercettibile
in un magistrale sen no sen
e l’acerbo allievo
proiettato in cielo
senza capire perchè
guardo i tuoi occhi velati
dal tempo
due lacrime
mi solcano il viso
I shin Den Shin Maestro
Grazie Danilo, molto bella, mi ha fatto molto piacere e un immensa tristezza nello stesso tempo.
ciao Bruce!!!!
illuminante , grazie maestro!
Una testimonianza veramente toccante
Racconto avvincente dal quale traspare la straordinaria umiltà del Maestro Alfredo Vismara, rarissima in questo ambiente, oltre che il suo affetto nei confronti del suo antico Maestro.Queste testimonianze di grandi Maestri sono essenziali per la memoria storica di un’arte marziale.Grazie